Cani e gatti, il giudice può limitare il possesso di animali in casa, ma anche in giardino

Animali in casa? Sì ma dipende quanti. E vale anche se cani o gatti stanno in giardino o in un cortile. La Corte di appello aveva già condannato una persona ad avere non più di sei animali domestici in casa e a risarcire il danno causato ai vicini per i  rumori e il cattivo odore che emanavano gli animali. Ma ora c’è una nuova ordinanza della Cassazione che torna su questo argomento e conferma il limite di cani e gatti che si possono tenere nella propria abitazione. Questa storia è frutto di una battaglia legale di sette persone contro una: la proprietaria dei cani che alla fine deve pagare i «danni alla salute e morali patiti» dai vicini di un palazzo attiguo al suo giardino. Quanto? Duemila euro a persona, totale: 14mila euro. 

Una casa non è un canile. In estrema sintesi la Suprema Corte dice questo esaminando il ricorso di una donna che teneva animali in casa ma era stata obbligata a non tenerne più di sei pur possedendo uno spazio esterno. «Il ricovero di un numero elevato di esemplari di animali genera un’immissione che non è generata da un uso ordinario per civile abitazione, bensì è un’attività di custodia e cura degli animali di competenza del Tribunale e non del Giudice di pace». 

Per limitare i disagi dei vicini di casa è prevista dunque la riduzione del numero di esemplari detenuti, quattro quelli indicati nella pronuncia di primo grado, sei nella sentenza d’appello per cui la proprietaria dei cani ha proposto ricorso. E le è andata male perché gli Ermellini hanno confermato che il danno c’è ed è una «lesione del diritto al normale svolgimento della vita personale e familiare all’interno di un’abitazione e, comunque, del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita». Un principio sacrosanto, tutelato anche dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti umani.

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Perciò ci deve essere un numero di animali domestici compatibile con le dimensioni dell’alloggio e del giardino. Altrimenti? Oltre quel numero si configura una vera e propria attività di custodia di animali: una casa diventa un canile. Sono importanti infatti «misure o accorgimenti per assicurare un temperamento tra i diversi interessi e diritti e tenendo conto anche dello spazio a disposizione», scrivono i giudici che tengono conto anche della «situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti». «Spetta, pertanto, al giudice di merito accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell’ambito della stessa», scrivono ancora i giudici.

Quella Corte d’Appello che ha condannato la proprietaria dei cani ha operato bene, dice la Cassazione, perché «l’accertata esposizione ad immissioni sonore intollerabili può determinare una lesione del diritto al riposo notturno e alla vivibilità della propria abitazione, la cui prova può essere fornita dal danneggiato anche mediante presunzioni, sulla base di nozioni di comune esperienza, senza che sia necessario dimostrare un effettivo mutamento delle proprie abitudini di vita». Tra i danni citati c’è «un continuo e assordante latrare proveniente dal fondo».

E se non si hanno le prove del disagio patito? Non importa. Gli Ermellini citano proprio la Convenzione europea dei diritti umani che tutela al massimo i condomini logorati dai cani che abbaiano: «Pur quando non rimanga integrato un danno biologico, non risultando provato alcuno stato di malattia, la lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria casa di abitazione, tutelato anche dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani, nonché del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, integra una lesione che non costituisce un danno “in re ipsa”, bensì un danno conseguenza e comporta un pregiudizio ristorabile in termini di danno non patrimoniale». Il diritto al riposo ha vinto. 

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