Polonia, la condanna all’attivista pro aborto dà un chiaro segnale di intimidazione alle donne

Diritto e giustizia: così si chiama il partito che governa oggi la Polonia. Concetti cruciali, quelli delle due parole scelte per dare nome a una formazione politica, che però dal 2019 distrugge quel diritto (o meglio i diritti universali che sono quelli delle donne) e usa la giustizia contro di loro nella sua accezione biblica: punitiva, vendicativa e terrorizzante. Il tutto accade in un paese cattolico proprio là dove, decenni prima, nacque come reazione al totalitarismo sovietico, un movimento che per nome si dette la solidarietà.

Quella solidarietà, quell’empatia, quella vicinanza che dovrebbero guidare chi governa nel nome della giustizia e del diritto e che invece hanno portato a processo e poi alla condanna un’attivista, pochi giorni fa, perché ha aiutato una donna vittima di violenza da parte del marito a interrompere una gravidanza assumendo la pillola abortiva. In Polonia dopo la drammatica entrata in vigore nel 2021 di una norma che impedisce l’aborto anche in caso di malformazione del feto e che, quindi nei fatti, sancisce il divieto totale di abortire nel paese, l’unica via è quella di procurarsi in tempo la pillola abortiva perché non è punibile l’assunzione con mezzi propri del farmaco.

Ipocrita, in malafede e surreale, questa labile disposizione ci racconta plasticamente che le donne, a meno di non essere tutte mediche e farmaciste, devono necessariamente in caso di bisogno rivolgersi altrove facendo scattare il reato di procurato aborto. Ed è per questo reato che Justyna Wydrzyńska è la prima attivista europea a essere condannata per aver aiutato ad accedere all’aborto.

Abortion Dream Team, così si chiama l’associazione creata da Wydrzyńska, è l’unica associazione in Polonia che aiuta le donne che necessitano di interrompere la gravidanza in un paese nel quale, solo nel 2019, le malformazioni fetali accertate furono 1074. Nel 2020 una donna vittima di violenza contattò Wydrzyńska, che le inviò delle pillole abortive. Il partner della donna le aveva proibito di andare in Germania per interrompere la gravidanza: intercettò il farmaco, chiamò la polizia che rintracciò l’attivista e l’arrestò. Il processo, durato poco meno di un anno, ha avuto come esito la condanna a otto mesi di lavori socialmente utili.

Il punto non è l’entità della pena decisamente meno dura dei tre anni di reclusione chiesti dal pubblico ministero. Il punto è il segnale e il significato della punizione e la prova di forza muscolare che il governo fondamentalista di destra ha voluto dare per intimidire le donne polacche indirizzando loro un messaggio chiaro: Dio, patria e famiglia vi tengono in pugno. Vi perseguiteremo se sarete solidali tra voi e se proverete, nonostante tutto, a pensarvi come libere. La distopia raccontata nel libro di Margaret Atwood Il racconto dell’ancella è diventata realtà (anche) in Europa.

Ecco uno stralcio del discorso dell’attivista in tribunale prima della sentenza:

“Sento di essere innocente. Quello che ho ascoltato qui in questa stanza, i dettagli della situazione di Ania (come viene chiamata la donna a cui Wydrzyńska ha inviato le pillole, ndr) mi hanno solo convinta che le mie azioni erano giuste. Mi ha fatto capire che dovevo fidarmi del mio intuito e correre il rischio di aiutare chi ne ha bisogno. Vorrei che nessuna donna si trovasse mai da sola in queste situazioni difficili, senza sostegno e con la famiglia che agisce contro di lei. Credo che aiutare un’altra persona che chiede sostegno mentre lotta per la propria libertà sia un nostro dovere. È ciò che ci rende umani. E non lo tradirò, non me ne vergognerò né crederò mai che si tratti di un crimine. Vostro Onore viviamo in un paese che non rispetta le donne. La legge anti-aborto non è solo crudele, ma è fittizia. La legge non impedisce alle persone con gravidanze indesiderate di interromperle. Questa non è una mia opinione, questo è ciò che mostrano tutte le ricerche sull’aborto, in tutto il mondo. (…) Una donna che non vuole essere incinta pensa in modo pragmatico; come accedere all’aborto, quanto costerà, se se lo può permettere. E avrà quell’aborto, indipendentemente dalla legge e indipendentemente da quanto sarà sicuro il metodo che userà. (…) Non voglio che nessuna passi da sola attraverso una pericolosa pratica di aborto non sicuro, quando è possibile farlo in sicurezza e senza stigmi. Non voglio che nessuna di noi sia costretta ad abbandonare il proprio diritto alla libertà e all’autodeterminazione”.

L’inizio della vicenda polacca coincise con un’infelice dichiarazione pubblica di Papa Francesco, sempre presente nel denunciare la violenza della guerra sul pianeta ma che purtroppo, proprio durante la veglia pasquale del 2020, accostò guerre e aborto auspicando la fine di entrambi. Come si evince dalla realtà è profondamente fuorviante accostare la guerra all’aborto.

In Italia le donne hanno duramente lottato, nella seconda parte del ‘900, per avere una buona legge come la 194, che non a caso si chiama “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza” e sempre non casualmente nel primo articolo recita: “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite”.

È, vale la pena di ribadirlo, una legge facoltativa: non si tratta di uccidere ma, al contrario, di garantire dignità e spazio vitale alla scelta più definitiva nell’esistenza umana, in capo solo le femmine della specie: mettere al mondo in sicurezza e responsabilità. Il paragone con la guerra regge solo nel caso in cui, e purtroppo nel mondo ci sono paesi dove questa guerra ancora è in corso, le donne non abbiano accesso alla possibilità di interrompere una gravidanza. Sappiamo molto bene che si muore di aborto clandestino e se ne moriva anche in Italia prima del 1978. Questa strage non era (e non è ancora) una guerra senza bombe?

Basta aborti clandestini lo gridavano, con disperazione e indignazione le donne nei cortei degli anni 70, così come ultimamente nella cattolicissima Irlanda dove solo dal 2018 si può accedere all’aborto senza essere arrestate o, appunto, rischiare di morire dissanguate per le conseguenze di un intervento in condizioni non sicure. Proprio in questi giorni Amnesty International ha lanciato un appello per accendere la luce sulla vicenda di Vanessa Mendoza Cortés, presidente di “Stop alla violenza” che potrebbe presto essere processata solo per aver parlato in difesa dei diritti delle donne in Andorra compreso il diritto all’aborto.

Quindi no: la guerra non è l’aborto e le due parole nella stessa frase pronunciate da un uomo che mostra spesso sensibilità verso le ingiustizie stridono come i chiodi nella carne del Cristo, il Cristo che mostrò quell’empatia che decisamente è assente tra i governanti cattolici in Polonia e in molta parte del pianeta verso le donne.

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