Smart Working e i genitori di under 14, Michel Martone: «Con le scuole aperte un errore averlo prorogato per legge»

Michel Martone, professore ordinario di diritto del lavoro presso l’Università La Sapienza e già viceministro del Lavoro, a che punto è la trasformazione del mondo del lavoro dopo lo tsunami provocato dal Covid?
«La pandemia ha accelerato tutte le grandi tendenze che attraversavano già il mondo del lavoro, quindi la remotizzazione, la digitalizzazione e la robotizzazione. Ma è accaduto anche che noi, dopo trent’anni di globalizzazione in cui correvamo alla velocità della luce, abbiamo avuto finalmente un momento per fermarci e per pensare».

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Con quali risultati?
«Ci siamo interrogati sul nostro rapporto tra lavoro e vita privata e abbiamo scoperto che era possibile lavorare anche in maniera diversa».

Quanto diversa?
«Si può lavorare più in base ai risultati e meno in base al tempo. E abbiamo anche scoperto che lo potevamo fare semplicemente mettendoci d’accordo con il nostro datore di lavoro. Quindi che si poteva fare attraverso contratti individuali, coordinandoci tra di noi. Perché in quel momento c’era bisogno di assicurare la continuità produttiva, tutelando nello stesso tempo la salute delle persone». 

Lo smart working esiste da anni in Italia, ma non era mai decollato. Quali sono i numeri reali del fenomeno? 
«Siamo passati da 500.000 persone che lo utilizzavano prima della pandemia, a 6-7 milioni di lavoratori coinvolti. Persone che con lo smart working hanno cominciato a lavorare diversamente. Un processo accompagnato dal nuovo modo di pensare, molto diverso rispetto a quello di un tempo, fondato sul rapporto vita-lavoro». 

L’idea diffusa è che i vantaggi sono per entrambi. Ma c’è il rischio di distorsioni?
«Indubbiamente è un modo di lavorare che ha pregi e difetti. Quel che è certo è che non vale per tutte le attività produttive». 

Sta dicendo che lo smart working non è per tutti? 
«Sì, e per motivi diversi. E’ un problema di declinazione, per cui in non pochi casi è preferibile la formula ibrida, un po’ in presenza e un po’ da remoto, a seconda delle necessità della settimana. E si è anche cominciato a ripensare gli orari di lavoro: se raggiungo i risultati entro un certo periodo di tempo, posso lavorare meno ore. Si è davvero imposto un generale ripensamento del rapporto con il lavoro che ha dato vita a nuovi fenomeni sociali come il “quiet quitting” e la “great resignation”. Di questo ripensamento dobbiamo indubbiamente tenere conto, ma dobbiamo anche evitare di applicare a problemi nuovi soluzioni vecchie». 

Ovvero, servono soluzioni nuove. Può fare qualche esempio concreto?
«Premetto che la legge non può risolvere tutti i problemi posti dallo smart working. Mi riferisco per esempio alla proroga delle agevolazioni accordate ai genitori di under 14. Forse per la fretta si è voluto dare una soluzione generale, applicando in un periodo post pandemico una regola elaborata in piena emergenza. Ma il legislatore non ha tenuto conto che le scuole avevano riaperto e che i ragazzi erano rientrati nelle aule».

Quindi?
«Quindi, a mio avviso per lo smart working la sede più idonea è quella della contrattazione individuale, in cui si cerca di coniugare le esigenze aziendali con quelle dei lavoratori».

Intende dire che un’opportunità può anche diventare un boomerang per un’impresa, se questa non può decidere come regolamentare il lavoro individualmente in base alle sue esigenze?
«Proprio così, ogni azienda è a sé, ha esigenze diverse e deve poter scegliere come adattare il nuovo modo di lavorare, soprattutto per quanto riguarda lo smart working, al suo processo produttivo. Questo non può essere deciso per legge. Tanto è vero che questa regola sui genitori di under 14 è stata estesa obbligatoriamente fino a giugno solo per le imprese private e non nel pubblico impiego, dove invece il trattamento potrebbe essere uguale per tutti». 

Curiosa questa differenza anche in termini di sostenibilità economica. Come mai secondo lei? 
«Evidentemente in questo caso non si è voluto far gravare sull’amministrazione pubblica le complicazioni gestionali che si sono invece scaricate sulle imprese private».

E il fenomeno dell’”abbandono silenzioso” e delle “grandi dimissioni” a cui ha fatto riferimento? In che modo c’entra con i rischi di cui parla?
«Sono fenomeni che ci impongono di capire che problemi nuovi richiedono soluzioni nuove. Ma anche che oggi per disciplinare il lavoro, insisto, non si può più utilizzare una soluzione per tutti: è necessario adattare le soluzioni in relazione alle singole realtà aziendali. Lo stesso vale per la riduzione dell’orario di lavoro di cui si parla».

Si riferisce all’ipotesi della settimana lavorativa di quattro giorni? Cosa ne pensa?
«Non può sicuramente essere imposta per legge. E il motivo è semplice: in alcune realtà produttive avanzate, nelle quali la produttività è cruciale per conseguire il risultato migliore, è un’innovazione che può essere introdotta, come già sta accadendo. Ma in tanti altri casi una scelta del genere imposta per legge spingerebbe tante imprese fuori mercato. Ecco perché anche in questo caso è bene che si ragioni in relazione alle singole realtà produttive». 

Ma lei pensa davvero che l’Italia sia pronta per passare ai quattro giorni?
«Questa strada va imboccata in maniera graduale. Il modello è un po’ quello del Regno Unito e della Nuova Zelanda che hanno avviato la sperimentazione su un campione di aziende. Ma senza obbligo per tutti».

Professore, pensa che si arriverà a una trasformazione del lavoro positiva, sia per le aziende che per i lavoratori? 
«Come ho detto, c’è una nuova mentalità del lavoro che crescerà e si affermerà sempre di più. Ma, insisto, bisogna distinguere caso per caso. Lo smart working non sempre è utile. La nostra sfida è di riuscire a scegliere la modalità lavorativa che massimizza la produttività per l’impresa e libera tempo per il lavoratore. Ma ciò cambia in relazione al servizio prestato. Il legislatore deve fare attenzione a non soffocare con la legge innovazioni nate nelle realtà produttive».
 

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