Meloni detta le condizioni in Ue: «Non saremo spettatori». Nel mirino il posto di von der Leyen, ipotesi Franco “super Commissario”

«È evidente che un governo forte, un governo solido, è un governo che rafforza l’Italia in tutte le sedi internazionali», anche «nelle trattative per la prossima Commissione Ue». Il day after del successo alle Europee, è per Giorgia Meloni l’occasione per puntare il mirino ben oltre il G7 che comincerà domani in Puglia. Per posarlo cioè, su Rue de Berlaymont. O più precisamente sull’ufficio di Ursula von der Leyen. «Sicuramente in questa fase l’Italia sarà protagonista e non spettatrice» è la chiosa della premier che, dagli studi di “5 minuti” su Rai 1, rivendica pure la coesione del centrodestra: «Non ho mai pensato davvero che potessero esserci delle scosse». «Per parafrasare quello che diceva il maestro Muti – la chiosa – noi siamo una orchestra nella quale ciascuno con la sua parte costruisce una armonia e mi pare che lo abbiamo dimostrato».

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Gli assetti Ue

Le trattative europee in ogni caso saranno complessissime e, comunque, non si concretizzeranno prima dell’inizio dell’autunno. «Il candidato presidente della Commissione prima di andare al Parlamento verrà indicato dal Consiglio europeo, quindi dai leader dei 27 Stati membri – ha detto ieri sera a Bruno Vespa – A norma di regole l’indicazione spetta al partito che ha avuto più voti, che in questo caso è il Ppe. Quando quella proposta verrà formalizzata la valuteremo perché nel negoziato ci sono diverse questioni che riguardano tutti i ruoli apicali, che riguardano le deleghe dei commissari e quindi anche il commissario italiano e io come sempre decido e scelgo con un unico metro che è quello dell’interesse nazionale italiano, ma sicuramente in questa fase l’Italia sarà protagonista e non spettatrice».

La certezza insomma è che, a maggior ragione dopo l’ottimo risultato di FdI e la pessima figura di Emmanuel Macron e Olaf Scholz, gli obiettivi italiani si sono consolidati verso l’alto. L’asticella si è cioè alzata, e a Roma si valuta ora l’Italia come papabile anche ad incassare uno dei top jobs – gli incarichi apicali – dell’Unione. Vale a dire uno tra il presidente della Commissione, del Consiglio o l’Alto rappresentante per la politica estera.

Nel primo caso, con relativa insistenza, ai vertici dell’esecutivo nostrano rimbalza la voce che vorrebbe Antonio Tajani (membro dei popolari europei) in odore di presidenza qualora von der Leyen dovesse finire con l’essere bruciata dal Ppe. Una prova di forza per Meloni che però in virtù dell’abitudine a volersi far trovare pronta a qualunque scenario, da un lato guarda con preoccupazione al futuro di una Forza Italia decapitata dopo l’exploit elettorale, e dall’altro valuta anche altre possibili opzioni per Bruxelles. Il nome di Enrico Letta ad esempio, sarebbe per diverse cancellerie europee un buon compromesso a capo del Consiglio. Così come, nel caso in cui i galloni da indossare fossero quelli che furono di Federica Mogherini (carica tutt’altro che banale con il conflitto in Ucraina in corso), in pole ci sarebbe la numero uno dell’intelligence Elisabetta Belloni.

Carte distribuite su un tavolo da poker a cui l’Italia è convinta di potersi sedere con la mano migliore. Al punto che la necessità di postporre la discussione per attendere i risultati delle elezioni convocate in Francia di Macron, è accolta con favore. «Il tempo – valuta chi accanto alla premier si occupa anche di strategie Ue – gioca con noi». L’idea è che debba posarsi la polvere. Ad esempio per rendere digeribile un eventuale nome alternativo a von der Leyen. Mossa a cui, che sia Tajani o meno, la premier sta lavorando a tutti gli effetti.

Gli scenari – di cui si è discusso ieri in una riunione a via della Scrofa con gli strateghi europei di FdI, la premier in videocollegamento e Fitto che poi è volato con lei in Puglia – sono tanti e declinabili a seconda delle opportunità. Dovesse esserci la conferma (al momento evidentemente da non considerare così scontata) di von der Leyen a capo della Commissione, la preferenza di Meloni ricadrebbe su una casella cucita addosso al “peso” italiano all’interno del Consiglio europeo. E cioè a quella di Commissario per il mercato interno oggi ricoperta da Thierry Breton, ma potenziata dalla delega alla Concorrenza che è stata di Margrethe Vestager. Una poltrona fondamentale che il ministro degli Affari europei Raffaele Fitto coprirebbe volentieri ma che, con buona probabilità, non finirà alla fine nelle sue mani. La premier non è infatti intenzionata a toccare l’esecutivo, anche per evitare che gli appetiti della crescente Forza Italia o il dinamismo di Matteo Salvini possano creare inutile scompiglio. E allora ecco che la carta meglio spendibile sarebbe quella di un “esterno”. Serve però una figura tale da non essere ostracizzata, né da poter essere messa in discussione.

Il nome del “super-Commissario” che più d’uno spende attorno alla premier è allora quello dell’ex ministro dell’Economia del governo Draghi Daniele Franco, già peraltro lanciato dall’esecutivo come candidato (poi risultato perdente) alla poltrona di presidente della Banca europea degli investimenti. Figura considerata impossibile da rigettare anche per chi si approccia con malanimo alle volontà del governo italiano, ma su cui permane qualche dubbio all’interno della cerchia strettissima della premier.

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Le riforme

Per la premier, che intanto ieri è volata a Borgo Egnazia con qualche giorno di anticipo per decomprimere la tensione della campagna elettorale e prepararsi all’inizio del G7, l’altra priorità è programmare l’iter delle riforme. Su queste – il premierato e la separazione delle carriere dei magistrati – non è possibile improvvisare. Ovvero non è possibile immaginare che si possa andare a referendum nel 2027, anno in cui termina la legislatura. L’idea è quindi arrivare al voto a fine 2026. Magari, contraddicendo quanto sottolineato dal sottosegretario Alfredo Mantovano, accorpando i due voti in un periodo utile a poter recuperare consenso nel caso in cui dovessero andare male. Del resto con il premierato che si trova oggi alla Camera ma è destinato a tornare al Senato per introdurre alcune modifiche che possano ampliare il consenso da parte delle opposizioni, e con la separazione delle carriere che è pronta a partire sempre a Montecitorio dopo il pressing del presidente Lorenzo Fontana, è abbastanza inevitabile. In primis perché, una volta incasellata, sarà presto “travolta” dalla sessione di bilancio che si aprirà dopo l’estate. Qualche indicazione in tal senso – sul rallentamento del premierato per favorire il dialogo con la minoranza – l’ha offerta ieri sera proprio Meloni. Il risultato del Pd alle Europee «ci avvicina il bipolarismo, che io considero una notizia assolutamente positiva – ha scandito su Rai1 – Io penso che il confronto tra visioni distinte e contrapposte sia una chiarezza nel nostro gioco democratico». Pur precisando che, e non è un dettaglio, è ancora «molto difficile» oggi «immaginare che i partiti della sinistra radicale possano essere messi insieme con quelli del centrosinistra, che infatti sono stati penalizzati: l’elettorato moderato ha sostenuto più il centrodestra, quindi nell’alto risultato di Fratoianni e nel buon risultato del Pd a guida Elly Schlein io vedo un rischio radicalizzazione a sinistra, che tra l’altro noi abbiamo visto in questi mesi nei toni e nei contenuti».

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