Le piazze per la pace ignorate dai media: così la stampa bellicista si mette al servizio della guerra

Ho partecipato anch’io, a Firenze, al lungo serpentone arcobaleno che sabato 26 ottobre ha attraversato l’Italia da Milano a Palermo, passando per Torino, Roma, Cagliari e Bari: oltre ottantamila persone hanno unito il Paese da Nord a Sud per chiedere alle istituzioni nazionali e internazionali, ancora una volta, di fermare tutte le guerre, perché il tempo della pace è ora.

Promosso da una amplissima piattaforma organizzativa – sottoscritta dalle reti Europe for Peace, Rete italiana pace e disarmo, Fondazione Perugia-Assisi. Assisi Pace Giusta e Sbilanciamoci – ha reso visibile il sentimento largamente maggioritario tra i cittadini italiani: è necessario l’impegno dei governi per far cessare il fuoco, immediatamente, in tutti gli scenari di guerra, dal Medio Oriente all’Ucraina, operando attivamente per una risoluzione nonviolenta delle controversie internazionali. Come prevedono la Costituzione italiana e la Carta della Nazioni Unite. Trasferendo, con il disarmo anziché la nuova corsa agli armamenti, le risorse pubbliche dilapidate in spese militari ed invio di armi ai paesi in guerra, nell’impegno per risolvere la crisi climatica, per la giustizia sociale, il lavoro, la democrazia.

E’ il programma politico di una grande assemblea nonviolenta itinerante, in cammino lungo le città italiane ma totalmente ignorata dai grandi media nazionali (fatti salvi il manifesto, Avvenire e Il Fatto Quotidiano): quelli che normalmente sbattono in prima pagina qualunque gesto vandalico o atto minimamente provocatorio, seppur isolato e marginale nelle manifestazioni, costruendo intorno a quel particolare narrazioni generali criminalizzanti, ma chiudono taccuini, telecamere e registratori davanti a un popolo in marcia con radicalità e compostezza.

Le ragioni di questo oscuramento mediatico sono date dalla pregnanza della proposte concrete ribadite nelle piazze, fondate su precise campagne di azione che, se portate all’attenzione del grande pubblico, informandolo adeguatamente, romperebbero le mistificazioni costruite in questi anni intorno alla velleità del movimento per la pace. I cui rappresentanti diretti sono sistematicamente esclusi dal sistema massmediatico mainstream, a cominciare – naturalmente e colpevolmente – dal cosiddetto “servizio pubblico”. Due esempi tra i tanti tanti possibili: il silenziatore sulla campagna “Ferma il riarmo” e sul tour italiano degli obiettori di coscienza israeliani e delle attiviste nonviolente palestinesi, all’interno della campagna di “Obiezione alla guerra”.

La campagna “Ferma il riarmo” presentata alla Camera dei Deputati alla vigilia della mobilitazione nazionale punta esattamente a svelare – con analisi e strumenti informativi – le cifre del furto di futuro costituito dalla nuova corsa agli armamenti, con i suoi impatti negativi sulla vita delle persone – e non solo nei paesi in guerra – evidenziando quanto, con i soldi delle spese militari italiane – che nel 2025 potrebbero raggiungere la cifra inaudita di 30 miliardi di euro! – si potrebbe realizzare in termini di investimenti civili e sociali. Per esempio, con i 2 miliardi di euro che il governo spende per il programma di fregate Fremm Evo si potrebbe finanziare l’assunzione di 15.000 infermieri per 5 anni; con il miliardo e duecentoventicinque milioni destinati ai sistemi di difesa per la fanteria pesante si potrebbero realizzare 770 opere per la messa in sicurezza del territorio a difesa dalle alluvioni; e così via sperperando.

Per queste ragioni la campagna si pone gli obiettivi di ridurre la spesa militare a livello nazionale e globale, con la messa a punto di percorsi di disarmo e riconversione e di utilizzare le risorse liberate dalla spesa militare per spese sociali, ambientali e per il rafforzamento degli strumenti di pace; di tassare gli extra profitti dell’industria militare, di diminuire i fondi destinati alle missioni militari all’estero e di aumentare i controlli sull’indebita influenza dell’industria militare su bilancio ed export militare. Si tratta, insomma, di promuovere una politica che metta al centro dell’azione i diritti dei cittadini anziché gli interessi dell’industria bellica. Perché un’altra legge di bilancio è possibile, ma è meglio non farlo sapere.

Come il tour dei giovanissimi obiettori di coscienza israeliani e delle attiviste palestinesi, che avevamo anticipato qui, che si è concluso proprio dal palco di Bari nella mobilitazione di sabato 26 ottobre, il quale nonostante si sia svolto in affollatissimi ed emozionanti incontri pubblici in tutta Italia (salvo un passaggio meritorio alla trasmissione di Radio3 Fahrenheit) è stato silenziato dai soliti media bellicisti. Raccontare di tre ragazze ed un ragazzo israeliani e palestinesi che viaggiano insieme, rifiutando la logica e la pratica della guerra e della violenza, e lottano insieme – con i mezzi della nonviolenza, pagandone le conseguenze – per la fine della guerra, del genocidio e dell’apartheid del martoriato popolo palestinese e per un futuro di pace e riconciliazione tra i due popoli è troppo disturbante per la grottesca narrazione dominante della lotta del bene contro il male. Seppur con qualche eccesso di “legittima difesa”, come racconta la scorta mediatica al governo israeliano…

L’informazione che rinuncia a descrivere la complessità della realtà, a cominciare dalle storie di coloro che rifiutando la logica della violenta costruendo ponti di pace con il “nemico”, non solo tradisce il proprio ruolo ma diventa parte del problema mettendosi al servizio della guerra.

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