Siria, perché la guerra? Jihadisti, basi russe, truppe Usa e jet israeliani: così è tornato il buco nero del conflitto
Jihadisti che avanzano verso sud. Miliziani che entrano ad Aleppo. La gente che fugge per sfuggire a questa avanzata e per non rimanere inghiottita di nuovo nella guerra. La Russia che bombarda Idlib, roccaforte dei ribelli contrari a Bashar al Assad. La Turchia che chiede di fermare i raid contro la città e di fermare “l’escalation indesiderata”. L’Iran che conferma di essere al fianco di Damasco e accusa i nemici di sempre, Israele e Stati Uniti, di avere dato il via libera a un’offensiva che ha fatto oltre duecento morti. La Siria sembra tornata indietro nel tempo. O forse il tempo non è mai veramente andato avanti. Dopo 13 anni dall’inizio della guerra, il conflitto di fatto non è mai realmente terminato. E se Assad è riuscito a rimanere al potere grazie soprattutto al sostegno dato dalla Russia e dall’Iran, divere parti del Paese sono rimaste zone grigie.
Le zone di guerra
Un’ampia area nel nord-est, quella che si incunea tra Iraq e Turchia, è controllata dalle forze a prevalenza curda. Le Forze democratiche siriane, con milizie arabe e combattenti curdi legati allo Ypg, di fatto monitora la regione con il sostegno parallelo delle forze Usa ancora presenti. Alcune sacche interne al Paese, di dimensioni certamente molto ridotte rispetto ai primi anni del conflitto, vedono ancora una presenza delle ultime forze del sedicente Stato islamico, quell’orda nera che ha devastato prima l’Iraq e poi la Siria e che ha portato con sé una scia di orrore e distruzione. Nel nord-ovest, nella ridotta di Idlib e in tutta la provincia, a dominare sono i ribelli, in larga parte sottomessi al gruppo jihadista di Hayat Tahrir al-Sham. Una forza legata ad al-Qaeda, dove circa quattro milioni di civili vivono in condizioni sempre più difficili, nemiche del governo ma anche frustrate da un isolamento difficilissimo da gestire anche sul piano umanitario. A nord, dove negli anni passati vi sono state diverse operazioni turche, si muove l’Esercito siriano libero. Nel sud, la comunità drusa ha già dato lanciato molti segnali di malcontento. E nel resto del Paese, nonostante le fragilità, l’isolamento, la crisi e la devastazione a ogni livello, regna ancora Assad. L’uomo che adesso si trova a dovere fronteggiare un’offensiva inaspettata, complessa e considerata estremamente pericolosa.
Assad e Damasco
In questi anni, il leader del regime siriano ha vissuto sostanzialmente come un paria della comunità internazionale. E gli unici a sostenerlo sono stati l’Iran e la Russia. La Repubblica islamica ha saputo costruire nel corso dei decenni un corridoio che l’ha unita direttamente al Libano passando per Iraq e Siria. E già solo per questo motivo, non poteva perdere il suo alleato a Damasco. Assad rappresentava un anello fondamentale di questa catena, uno strumento per premere su Israele ma anche per aumentare il peso geopolitico di Teheran nel mondo arabo. E i Pasdaran hanno prima aiutato il regime a non crollare sotto i colpi dell’Isis e della guerra civile, poi hanno consolidato la loro presa sul Paese sfruttando come base logistica per tutti gli spostamenti verso il Libano o anche per colpire lo Stato ebraico. Dall’altro lato, la Russia non poteva perdere a sua volta il suo unico vero alleato in Medio Oriente e nel Mediterraneo orientale. Essenziale non solo per la diplomazia araba di Vladimir Putin, ma soprattutto perché tra Tartous e Latakia, Mosca possiede le sue uniche e più importanti basi nella regione. Basi aeree e navali in grado di proiettare la Federazione Russa molto più a sud dei suoi confini.
Tragedia umanitaria
La guerra è andata avanti fino a un congelamento che è durato anni. E che ha congelato anche una situazione umanitaria drammatica. Il numero dei morti è indefinito. In base a uno studio delle Nazioni Unite realizzato nel 2022, si è arrivati alla conclusione che i morti documentati e causati direttamente dal conflitto in dieci anni di guerra siano stati 350mila, di cui la metà civili. Ma a questo numero, l’Onu ha aggiunto un altro dato ulteriormente tragico, e cioè che le stime indicano che i morti civili potrebbero essere 160mila in più, portando così le vittime non militari del conflitto a 306mila. Una statistica terrificante rappresentata anche da un altro numero dato dallo stesso rapporto, e cioè che in base a questi dati si può calcolare che ogni giorno, per dieci anni, sono morti a causa della guerra 83 civili. Escludendo quelli deceduti in via indiretta per le cause collegate al conflitto ma non per armi. E ciò significa che nei combattimenti potrebbe essere morto l’1,5% dei civili siriani.
All’enorme numero di morti, si aggiunge poi quello ancora più alto degli sfollati, circa 14 milioni, divisi tra profughi interni ed esterni. Perché appena iniziati i combattimenti, dalla Siria è partito un esodo il cui fiume umano in parte si è interrotto all’interno del Paese e in parte si è rivolto altrove, in particolare in Libano e in Turchia, per poi prendere anche la rotta dell’Europa. La situazione umanitaria della Siria è gravissima. E tra la guerra civile ancora parzialmente in corso, le conseguenze dei bombardamenti, l’impossibilità di accogliere investimenti esteri, il terremoto che ha investito il nord della Siria e il sud della Turchia, un sistema infrastrutturale quasi inesistente e l’isolamento dato dalle sanzioni e dalla debolezza dei maggiori sponsor, la povertà è diventata endemica. Nel 2023, Oxfam ha lanciato un nuovo terribile allarme, ricordando che il 90 per cento della popolazione vive sotto la soglia della povertà. Lo Stato molto spesso è assente. La macchina governativa non può muoversi per assenza di soldi, mezzi e personale. E nella stessa città di Aleppo, obiettivo dell’attuale offensiva, un recente studio Ispi ha ricordato che i servizi di base sono quasi del tutto assenti nonostante siano passati sette anni dalla riconquista da parte dell’esercito regolare.
Equilibri e alleanze
In questa situazione, Assad è rimasto al potere, cristallizzando di fatto una sorta di tregua definitiva. Almeno fino all’avanzata di questi giorni dei ribelli da nord verso Aleppo. E non è un caso che da qualche anno si siano iniziati a normalizzare i rapporti tra il regime siriano e vicini e anche diversi Paesi europei. La riammissione di Damasco nella Lega Araba è stato un primo grande segnale di svolta. Così come lo sono stati i recenti dibattiti a livello europeo (con l’Italia protagonista) sulla necessità di riallacciare relazioni diplomatiche con la Siria anche per evitare che il buco nero si allarghi investendo inevitabilmente di nuovo il Medio Oriente e poi il Vecchio Continente. MA la guerra che nell’ultimo anno ha investito Israele, Gaza e il Libano e con le fiammate che hanno colpito anche l’Iran, hanno riacceso anche i riflettori su questo Paese. E molti analisti vedono proprio nell’offensiva di oggi anche un colpo di coda della grande guerra che coinvolge tutta la regione. Benjamin Netanyahu ha già avvertito Assad di “non giocare con il fuoco”. E la debolezza di Hezbollah dopo le operazioni dell’Idf in Libano rende impossibile per il Partito di Dio intervenire in Siria a sostegno dell’alleato di Damasco. Russia e Iran, in questo momento, sono impegnate in troppi scenari, nonostante i caccia di Mosca siano già intervenuti a sostegno dell’esercito per fermare l’offensiva jihadista. Ma la paura è che la Siria possa essere di nuovo investita da questo incendio che non si spegne da tredici lunghissimi anni.
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