JF Kennedy, Francesco Rutelli: «La sua eredità è il dialogo fra gli avversari»

Fu ucciso 60 anni fa a Dallas, il 22 novembre del ‘63, John Fitzgerald Kennedy. Da allora, e prima di allora, è stato un mito in buona parte del mondo. Anche nel nostro Paese. Oggi pomeriggio Francesco Rutelli, che va a buon titolo annoverato come uno dei kennediani d’Italia, al Centro studi americano andrà a spiegare – nel convegno Bridging cultures: gli americani in Italia» – che il Kennedy-mito è stato un’anticipazione, di 30 anni, del soft power degli Stati uniti. 

Francesco Rutelli

Rutelli, che cosa ha rappresentato l’epopea kennediana nella cultura e nella politica italiana? 
«Il suo mito è legato a un messaggio di ottimismo. E l’elemento della giovinezza ha contribuito a questo fenomeno. Al tempo di JFK, i politici importanti erano anziani e la società era quella, per esempio, del film Greenbook: in cui i neri non potevano entrare nei ristoranti, se non in quelli selezionati per loro. Lui si è battuto per i diritti civili, per i diritti della popolazione di colore, e ha portato un salto politico e culturale straordinario che, dall’America, si è irradiato in tante parti del mondo. Altro aspetto è quello della politica estera». 

Cioè? 
«È stato un militare coraggioso, ha rischiato la vita in guerra e allo stesso tempo si è misurato con una fase drammatica delle tensioni con la Russia sovietica: dalla vicenda della Baia dei Porci allo scontro sui missili a Cuba che portò il mondo sull’orlo del conflitto nucleare. E ancora: a Berlino a fine giugno del ‘63 andò nel punto della spaccatura dell’Europa, a dire in che cosa si sarebbe sostanziata l’Alleanza Atlantica. Questi elementi sono stati fondamentali per il mito di Kennedy. Non dimentichiamo che una parte della sinistra era schierata con Mosca, come si sarebbe visto cinque anni più tardi con l’ingresso dei carriarmati sovietici a Praga».

Lei ha conosciuto diversi esponenti della famiglia Kennedy e, da sindaco di Roma, trent’anni dopo la morte di JFK ha accolto Clinton sul Campidoglio. Bill un super-kennediano?
«Lo accolsi per celebrare i 50 anni della Liberazione di Roma grazie all’intervento delle truppe alleate. Con la caduta del Muro, il mondo si avviò a una pacifica globalizzazione nel segno dell’affermazione delle democrazie liberali. Kennedy aveva avviato quel processo di cui Clinton era un grande protagonista». 

Non è paradossale che nella gara a chi, dai primi anni ‘90, si diceva più kennediano degli altri gli ex comunisti, specie in Italia, fossero i più rapidi e convinti?
«Si trattò di una forma di cosmesi storico-politica. Altro paradosso è che il presidente americano più democratico-sociale, più impegnato nelle riforme economiche, sia stato Johnson piuttosto che Kennedy. Però Johnson è diventato indicibile a causa dell’escalation della presenza militare in Vietnam, che comunque era stata avviata da Kennedy». 

Chi davvero può dirsi kennediano in Italia?
«Il movimento radicale che, in quegli anni, cominciò a immaginare la strategia dei diritti civili nel nostro Paese e a coltivare l’amore per le libertà. Sono valori kennediani che Marco Pannella e i radicali, tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio dei ‘70, hanno praticato con maggiore forza rispetto a tutti gli altri». 

Nella società di oggi il kennedismo come può essere rintracciato?
«JFK ha incarnato il primo duello televisivo, quello con Nixon. Per la prima volta la polarizzazione della politica entrò nelle case degli americani. Oggi, non basterebbe il suo successo televisivo, perché i social lo infilzerebbero per la sua esuberanza sessuale, raccontata anche in diversi film. Tra cui Blonde, che è l’ultimo su Marilyn Monroe. La mediatizzazione di JFK, il suo divismo, lo rendono una star del XXI secolo. Pur avendo governato gli Stati Uniti appena per tre anni». 

Come Rabin in Israele, anche lui è stato assassinato da una mano non straniera. 
«Certo, non c’è stato a Dallas un complotto internazionale. Proprio come per Rabin, nel ‘93, dopo l’accordo con Arafat, che valse a entrambi il Nobel per la pace. Kennedy e Rabin erano due militari che avevano rischiato la vita in guerra. Non erano due pacifisti ma hanno costruito dei momenti sensazionali per la pace. Kennedy non si stancava di costruire occasioni, pur nella competizione, di dialogo con gli avversari. Fermezza e ricerca di compromesso, per scongiurare catastrofi. Questo aspetto per me, democratico italiano, significa che anche le tragedie possono rafforzare una democrazia che funziona. In fondo, paradosso e problema di oggi, non è che ci manchino le tragedie, vedi quella in Medio Oriente, ma quanto le democrazie dimostrino di funzionare». 
 

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