Stragi, il pentito trovato morto aveva paura. Era atteso al confronto con l’ex senatore che aveva accusato di mediare tra mafia e Servizi

“I servizi chiesero al mio capo di fare le stragi”- Nato nel 1960, Palmeri era il braccio destro di Vincenzo Milazzo, capomafia di Alcamo che negli anni ’80 gestiva la più grossa raffineria di eroina d’Europa: in contrada Virgini produceva droga per centinaia di miliardi di lire, che veniva poi immessa sul mercato americano. Milazzo venne ucciso in modo misterioso pochi giorni prima della strage di via d’Amelio, dove il 19 luglio del 1992 saltò in aria Paolo Borsellino. Poco dopo, venne assassinata pure la sua compagna, Antonella Bonomo, che era incinta di tre mesi: del commando che la uccise faceva parte anche Matteo Messina Denaro. Dopo essere diventato collaboratore di giustizia, sarà Palmeri a svelare la ragione di quei due omicidi: Milazzo, racconterà, fu fatto fuori perché si era schierato contro il piano di destabilizzazione dello Stato a colpi di bombe e stragi. Un piano messo in pratica da Cosa nostra, ma ispirato da altri sistemi di potere. Quali? Palmeri parla di almeno tre riunioni alle quale partecipò il suo capo, organizzate nella primavera del 1992, poco prima della strage di Capaci. “Volevano mettere in atto una strategia di destabilizzazione dello Stato con bombe e attentati. Da quegli incontri Milazzo usciva molto turbato. Mi diceva: questi sono pazzi scatenati e che quello che volevano fare avrebbe portato alla fine di Cosa nostra e che non avrebbe portato beneficio a nessuno. Milazzo non era favorevole ma rispondeva con un ‘Ni’ a quel progetto. Se avesse detto no sarebbe stato un gran rifiuto e ci avrebbero ammazzato”, è il racconto il pentito.

I tre incontri col dottore – Nel 2016, davanti al pm Gabriele Paci (ora procuratore capo di Trapani), Palmeri è entrato nel dettaglio di quelle riunioni: “Il primo incontro tra Milazzo e gli appartenenti ai servizi avvenne prima della strage di Capaci e rammento che fu il Lauria a presentare costoro al Milazzo”. Poi sottolinea: “Ricordo che Milazzo appellò il Lauria come un altro pazzo, quando commentò in mia presenza la proposta che questi aveva fatto di usare fuori della Sicilia armi batteriologiche”. Nel verbale di quell’interrogatorio del 18 novembre 2016, Palmeri indica solo il cognome di questo trait d’union tra i servizi e Cosa nostra: lo chiama il “dottor Lauria” e lo indica in in servizio come primario di Chirurgia all’ospedale di Alcamo. I pm gli chiedono della “carriera politica” di Lauria, eletto al Senato con Forza Italia nel 1996 e poi passato nell’Udeur di Clemente Mastella. Palmeri dice di non saperne nulla, ma gli investigatori hanno appurato che l’unico medico di Alcamo a rispondere al ritratto fatto dal pentito è proprio Baldassare Lauria, detto Sasà, ex senatore, che oggi ha 87 anni. Medico stimato nel Trapanese, Lauria ha negato le accuse di Palmeri e per questo motivo è indagato a Caltanissetta per frode in processo penale aggravato dall’aver favorito Cosa nostra e dall’aver commesso il fatto in un procedimento per strage.

L’omicidio del boss che disse no alle stragi – Il confronto tra Palmeri e Lauria era stato fissato nell’ambito dell’ultimo fascicolo aperto a Caltanissetta per continuare a indagare sulle bombe del 1992. Sono molteplici, infatti, le zone d’ombra rimaste inesplorate relative alle stragi. I racconti di Palmeri, tra l’altro, erano stati considerati credibili dai giudici che hanno ascoltato le sue deposizioni. Lo reputava un teste attendibile la corte d’Assise di Caltanissetta, che nell’ottobre del 2020 ha condannato all’ergastolo Matteo Messina Denaro per le stragi di Capaci e di via d’Amelio. La stessa opinione avevano i giudici di Reggio Calabria, che hanno emesso la stessa condanna per Giuseppe Graviano, accusato di aver fatto assassinare due carabinieri nel 1994, sempre nell’ambito della stessa strategia di attacco allo Stato. È per essersi opposto a quel progetto che Milazzo venne assassinato. “Venne attirato in un tranello da Antonino Gioé, Leoluca Bagarella, Gioacchino Calabrò – è il racconto di Palmeri – Io queste cose le apprendo da Gioé. Lui mi disse di aver sparato a Milazzo. Perché fu ucciso? Dopo la sua morte sul movente furono dette una moltitudine di corbellerie. Che aveva incassato soldi, che aveva dato noia alla moglie di un uomo d’onore, che aveva parlato male di Riina e Provenzano. Io non posso affermare con certezza il motivo ma noi eravamo consapevoli del rifiuto che aveva dato nell’affiancare la strategia terroristica. Qualche tempo dopo fu uccisa anche la sua ragazza, Antonella Bonomo, appena ventenne e incinta. Sempre Gioé mi disse: L’abbiamo dovuto fare”. Si era sempre detto che la giovane era stata uccisa perché a lei Milazzo raccontava tutto. In più la ragazza aveva un parente nei servizi segreti, al quale potevano essere state riferite informazioni delicate. A rintracciare quell’uomo è stata la procura di Caltanissetta: si tratta di un ex generale dei carabinieri, in servizio al Sisde e alla presidenza del consiglio, che però ha negato di aver ricevuto alcuna confidenza dalla nipote, fidanzata del capomafia.

Le dichiarazioni di Palmeri hanno indicato agli investigatori una nuova traccia nelle indagini sui mandanti esterni a Cosa nostra delle stragi del 1992 e 1993. Una pista che conduce nel cuore della provincia di Trapani, terra densa enigmi e misteri. Già alla fine degli anni ’90 Palmeri aveva messo a verbale dichiarazioni contro altri politici di Alcamo, accusati di aver avuto legami con Milazzo: l’ex ministra dei Beni Culturali, Enza Bono Parrino (Psdi), e Vito Turano, ex sindaco Dc di Alcamo. Quelle accuse non ebbero alcun seguito, mentre di recente il nome dell’ex ministra Parrino è tornato sui giornali per il suo vecchio caposcorta, Vincenzo La Colla. Il 29 settembre del 1993 il carabiniere finì nei guai perché venne accusato di gestire un gigantesco deposito di armi clandestino, insieme a un collega. Si trattava di un’armeria occultata in una villetta di Alcamo: si disse che quelle armi servivano alla struttura di Gladio nel Trapanese, ma poi le accuse caddero. A scoprire quell’armeria segreta fu un agente di polizia, Antonio Federico, che durante la perquisizione trovò anche la foto di una giovane donna, conservata dentro il volume di un’enciclopedia. Anni dopo gli investigatori noteranno che quella ragazza somigliava molto a uno degli identikit elaborato dagli inquirenti sulla base del racconto dei testimoni della strage di via Palestro. Da tempo, infatti, si ipotizza la collaborazione di persone di sesso di femminile nelle stragi del 1993. Alcuni testimoni hanno raccontato di aver visto una ragazza bionda nei paraggi del Padiglione d’arte contemporanea, a Milano, dove il 27 luglio del 1993 un’autobomba fece 5 morti. Acquisita la forografia trovata dal poliziotto Federico, la procura di Firenze – competente per le indagini sulle stragi del 93 – ha usato un software inventato per la comparare le foto segnaletiche con i volti delle persone scomparse. Il risultato è stato che nel marzo del 2020, i procuratori aggiunti Luca Tescaroli e Luca Turco hanno fatto perquisire Rosa Belotti, una 57enne di Bergamo accusata di aver guidato fino in via Palestro la Fiat Uno che era stata trasformata in un’autobomba dagli uomini di Cosa nostra. La donna ha respinto le accuse. Davanti all’istantanea trovata nell’armeria abusiva, però, ha ammesso: “Si, quella donna nella foto sono io”. Ma che ci faceva la foto di una ragazza della provincia di Bergamo in una villa di Alcamo, trasformata in un deposito d’armi segreto? È solo uno dei tanti misteri delle stragi.

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