Difendere l’italiano? Non così! La lotta (politica) ai forestierismi

Dante, grande linguista attento all’Europa, con il suo «De vulgari eloquentia» dipinge un immenso affresco della ricchezza della lingua la cui storia s’intreccia con fatti epocali, politici, sociali, tecnologici. Appare quantomeno bislacca la proposta di legge di Fabio Rampelli di tutelare l’identità della lingua italiana dall’invadenza di parole straniere con ammende e multe pecuniarie. Una sgrammaticatura istituzionale anche questa? Oppure un autogol – come dicono concordemente i linguisti qui interpellati – che vanifica il nobile obiettivo dell’Accademia della Crusca di difendere la lingua italiana e proporre l’uso di termini italiani sostitutivi di quelle forme inglesi che nella comunicazione ufficiale, pubblica e istituzionale appaiono opache e poco comprensibili per tutti. Non certo per screditare l’inglese, il cui uso scientifico e comunicativo è ovviamente riconosciuto. Ma è l’aspetto punitivo della proposta che fa pensare ad autarchiche mitologie fasciste che peraltro non resistettero alla fine della guerra e del regime.
Liquida la questione Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, che da Unomattina ogni domenica parla al grande pubblico della bellezza della lingua italiana dovuta all’incontro stratificato di culture. «Chi parla così non ha idea di quel che può dire; si ripescano le cose più stupide del Ventennio, credendo in tal modo, ignorantemente e presuntuosamente, di riprendere in mano il fascio littorio. Fatto è che dal ’22, dico dal 1922, al ’22, dico al 2022, non hanno fatto un passo avanti per la crescita del Paese. Ci hanno provato tante volte ma hanno fatto stupidaggini. Non hanno altri argomenti. Che si occupino di cose ben più importanti. Dante li guarderebbe sdegnoso e passerebbe oltre».
«La lingua è un organismo che vive, e non si difende né si modifica con decreti legge e multe – dice Valeria Della Valle, accademica della Crusca, direttrice, tra le altre cose, dei dizionari Treccani, oltre che membro del comitato scientifico della Fondazione Bellonci e del comitato direttivo del premio Strega – . I provvedimenti sono già esistiti e non hanno prodotto niente di buono. Fare proposte del genere, sicuramente ad effetto, è antistorico e pericoloso: antistorico perché finito il fascismo le parole “italiane” imposte obbligatoriamente dall’allora Accademia d’Italia furono abbandonate, tranne “regista” e “autista” e poche altre. Pericoloso perché c’è il timore che la proposta sia fatta per compiacere determinati gusti e schieramenti ideologici. La Crusca dà pareri e suggerisce di usare la forma italiana laddove la forma inglese risulti oscura e poco chiara, nella lingua delle istituzioni, che deve essere trasparente e comprensibile per tutti. E proprio nell’ambito della Crusca il gruppo Incipit, nato nel 2015 – ne faccio parte anch’io con molti validi linguisti, e il coordinatore è il presidente della Crusca Claudio Marazzini – volendo affrontare la questione della presenza sempre più frequente dell’inglese nella comunicazione istituzionale, suggerisce le sostituzioni laddove le espressioni in inglese possono coprire o a volte perfino camuffare la realtà. Penso per esempio a “smart working” al posto del quale abbiamo proposto “lavoro agile”: il risultato è stato che la forma inglese è ancora usata ma che quella italiana sta circolando sempre più».
E Paolo D’Achille, ordinario di Linguistica italiana all’Università Roma Tre, vicepresidente dell’Accademia della Crusca, nel cui ambito è responsabile del servizio di consulenza linguistica e direttore del periodico “La Crusca per voi”, sempre attento alle questioni linguistiche dell’italiano contemporaneo: «Trovo abbastanza mortificante che la politica linguistica venga solo da destra. I problemi dell’invadenza di espressioni inglesi nell’ambito delle istituzioni sono noti ma vengono lasciati sopire; però quando c’è un governo di destra ecco che si riaccendono ma volgendoli in un’ottica di ripresa della politica fascista. Non si tratta di disconoscere il prestigio della lingua inglese in tanti campi, dal costume allo sport, ai giochi, alla tecnologia. Però quando la Crusca ha sollevato obiezioni sul fatto che i progetti PRIN imponessero la lingua inglese e indicassero come opzionale l’italiano, l’allora ministro dell’istruzione neppure rispose alla Crusca. Per non dire della Corte Costituzionale che nel 2017 bocciò la decisione del Politecnico di Milano di istituire tutti i corsi in inglese, sentenza che viene tuttora aggirata. Dovremmo piuttosto occuparci del fatto che l’italiano non sia più al centro della politica scolastica, si dovrebbe pensare all’insegnamento dell’italiano per stranieri e migranti e, invece, si strumentalizza un problema di base e si finisce per rafforzare quegli atteggiamenti che rischiano di subordinare la lingua italiana».
In linea con Paolo D’Achille sulla questione PRIN, Fabio Rossi, ordinario di Linguistica italiana all’Università di Messina, già allievo di Luca Serianni, e, tra le altre cose, studioso del parlato dei media e delle ideologie linguistiche (si è occupato del progetto di insegnamento di lingua e cultura italiana per cittadini extracomunitari, sotto la responsabilità scientifica del linguista Carmelo Scavuzzo), concorda sul fatto che sulla lingua non si legifera a suon di editti e spera che «questa proposta cada nel dimenticatoio perché danneggia il dibattito democratico sull’uso della lingua. Chi propone cose del genere – dice – mostra di ignorare i principi di funzionamento di una lingua e inoltre si mette al posto dei linguisti mentre c’è già la Crusca che metalinguisticamente invita a prendere coscienza dei fenomeni. Sono problemi che per la loro serietà non possono essere lasciati a stratagemmi propagandistici. Piuttosto, si rilegga quel testo straordinario, anche dal punto di vista linguistico e non solo contenutistico, che è la nostra Costituzione, dove non c’è un termine che non sia di chiarezza cristallina e che non possa essere compreso da chiunque. E poi, non si tratta di fare una crociata contro l’inglese, benché gli stessi anglisti giudichino provinciale il fatto che noi italiani usiamo troppo termini inglesi anche quando non è necessario. Strano poi che chi fa questa proposta abbia creato ministeri e commissioni con termini inglesi (e tra le tante parole opache penso a “welfare”). Anche questo dibattito ha l’aria di convogliare l’attenzione verso altro e distrarre da problemi ben seri come ad esempio lo scudo fiscale».

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