Paola Cortellesi: «La società è ancora maschilista. Spesso quando guardano un mio contratto dicono “non male per una donna”»

Commozione in sala, un’ovazione interminabile, gli occhi scintillanti della neo-regista Paola Cortellesi regina del red carpet con il motivatissimo cast di C’è ancora domani: Valerio Mastandrea, Giorgio Colangeli, Emanuela Fanelli, Romana Maggiora Vergano, Vinicio Marchioni. La 18ma edizione della Festa di Roma si è inaugurata all’Auditorium Parco della Musica nel segno delle emozioni, dei diritti delle donne, del cinema italiano. Alla cerimonia, condotta da Francesco Di Leva, Theo Teardo ha consegnato il premio alla carriera al compositore giapponese Shigeru Umebayashi, si è reso omaggio a Giuliano Montaldo, hanno parlato il presidente Gian Luca Farinelli e la direttrice artistica Paola Malanga.
Poi Cortellesi ha toccato il cuore di tutti con “C’è ancora domani”, il film da lei scritto, diretto, interpretato (in sala il 26 ottobre), girato in bianco e nero e ambientato a Roma nel 1946, alla vigilia del referendum istituzionale in cui le donne voteranno per la prima volta. Senza rinunciare ai toni della commedia, l’attrice romana, 49 anni, racconta la vicenda struggente di Delia, una popolana che abita a Testaccio con il marito violento (Mastandrea, mai così esecrabile), il suocero orco (Colangeli), la primogenita pronta a sposarsi (Maggiora Vergano), i due figli piccoli. Remissiva e servizievole, «convinta di non valere niente», la donna vive la sua vita “invisibile” tra botte e fatica quotidiana. Fino all’epilogo inaspettato che apre alla speranza.

Quale molla l’ha spinta a realizzare il film?
«L’immagine di un ceffone ricevuto in faccia da una donna che non reagisce e continua la sua vita di Cenerentola come niente fosse. La storia nasce dai tanti racconti che ho ascoltato dalle anziane della mia famiglia. È un omaggio alle donne “invisibili” che non sono state mai celebrate ma hanno costruito il nostro Paese».

Perché ha ambientato la vicenda nel 1946?
«Per descrivere la società patriarcale che, malgrado i cambiamenti avvenuti, resiste ancora. Come la disparità salariale. Quante volte, a proposito di un mio contratto, ho sentito dire: “Non male, per essere una donna”».

A che età ha voluto affrancarsi dalla cultura maschilista?
«Tardi, perché non sapevo di farne parte: anche se vengo da una famiglia illuminata, ho conosciuto le differenze – nel linguaggio, nei gesti, nella mentalità – che sanciscono lo svantaggio delle donne».

C’è un momento specifico in cui si è sentita discriminata?
«Ho capito di contare di meno nella testa degli altri quando, alle prime riunioni di sceneggiatura, davo le idee ma i miei interlocutori si rivolgevano ai maschi».

Perché in “C’è ancora domani” le scene di violenza domestica somigliano a coreografie?
«Le ho raccontate come un rituale a cui Delia è abituata. E non volevo generare voyeurismo in questo momento purtroppo scandito da femminicidi e violenze».

Nel film la solidarietà femminile ha un ruolo importante: ma esiste davvero o la competizione è ancora la regola?
«La rivalità esiste in tutti i settori della società, ma tra noi donne viene alimentata dall’appartenenza a una comunità svantaggiata. È facile essere magnanimi e solidali se, come gli uomini, si vive in una situazione di vantaggio in cui non c’è bisogno di sgomitare».

Tornerà dietro la cinepresa?

«Senza dubbio. Dirigere il film è stato faticoso e impegnativo, ma non vedo l’ora di riprovarci».

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