Toni Negri, morto oggi a 90 anni. Autonomia operaia e simbolo della rivoluzione fallita: chi era

Il cattivo maestro per eccellenza. Così è stato considerato per gran parte della sua vita Toni Negri. Che è appena morto a 90 anni, a Parigi. Dove il leader di Potere  operaio e di Autonomia operaia, dopo i trascorsi in carcere, si era trasferito decenni fa sentendosi un “esule rivoluzionario” e diventando un mito della sovversione italiana in quei salotti radical  chic francesi che hanno sempre adorato i presunti guerriglieri italiani per il comunismo  (vedi Cesare Battisti adottato dalla rive gauche nei suoi anni di latitanza). 

Filosofo della politica, esperto di Spinoza ma anche di Marx, docente riverito negli USA e in tutto il mondo accademico estremista di sinistra, Negri è stato il simbolo della rivoluzione fallita. La sua lettera scarlatta è stata un numero: 7 aprile 1979. Il suo Moloch, Autonomia Operaia, finiva in gabbia a Padova. Di fronte sarebbero stati a lungo lo Stato e il teorico dell’anti-Stato, ancorché docente di Dottrina dello Stato. Fin quando il pallottoliere giudiziario formò un ulteriore numero, 17, gli anni di carcere inflitti al professore, che ne sconterà 11 e mezzo.

La lotta di classe

Fino alla fine nella sua casa di Parigi, tra sigarette e libri, ripeteva: “Io morirò da rivoluzionario”. E poi: “La lotta di classe è sempre aperta”. La sua cominció a Padova 
con  la militanza giovanile nell’Azione Cattolica.

Sarebbero seguite tante cose: l’ammirazione per Moro, e per Bobbio, ma soprattutto  la stagione tragica degli Anni di piombo e il fiancheggiamenti non nascosto verso le azioni dei terroristi. Il movimento del ‘77 che praticava esproprio proletario, rifiuto del lavoro, equidistanza del tipo né con lo stato né con le Br e  considerava il Pci una costola  del capitalismo reazionario ebbe in lui il cattivo maestro. “Il Pci e poi rutta la sinistra successiva – così diceva Negri  – non ha capito la trasformazione del capitalismo. Si è adeguato a un modello di sviluppo industriale fordista, mai avventurandosi nel post-fordismo e mai andando al di là del keynesismo».

Il soprannome “cattivo maestro”

L’Italia di Negri era quella degli omicidi politici quotidiani. Lui sottilizzava: “Ma chi ha cominciato? Le stragi non erano forse di Stato? Io, comunque, non ho mai ucciso”. Questo, processualmente, è vero. Ma i danni politici e culturali di Toni Negri sono stati profondi. Questo per primo: spingete alla rivolta violenta – “La violenza è atto rivoluzionario” – una intera generazione di giovani ideologizzati e insieme sbandati. Perciò è stato  soprannominato il cattivo maestro, non l’unico purtroppo. 

Ammantava  filosoficamente la sua pratica militante. “Machiavelli insegna che la lotta di classe sta al centro di ogni concezione del potere e che lo Stato è il prodotto di questa lotta sempre aperta”. Quanto a Spinoza: “Diceva 
che la migliore vita sociale è la vita condotta collettivamente, la vita comune, la moltitudine dovrebbe organizzarsi liberamente, come società amorevole”. E 
Marx: “Mescola la lotta di classe con la tendenza a edificare un comune materiale e spirituale, politico ed economico”. 
Gramsci: “Auspico che lo si legga, sottraendolo alle macerie, ossia al togliattismo. È uno scrittore rivoluzionario, non il teorico del compromesso storico”. 

Scriveva cose così: 
“La violenza è il filo razionale che lega la valorizzazione proletaria alla destrutturalizzazione del sistema e quest’ultima alla destabilizzazione del regime. Basta con l’ipocrisia borghese e riformista contro la violenza”.

Il 7 aprile 1979 Negri viene arrestato con l’accusa di associazione sovversiva e insurrezione armata contro lo Stato. Il pm di Padova Pietro Calogero lo riteneva responsabile di essere la mente delle Brigate Rosse. Oreste Scalzone, uno degli altri ‘cattivi maestri’ imputati in questo processo, spiegherà: “Calogero e gli altri hanno sbagliato per eccesso, ma anche per difetto. Il complotto, la cupola del terrorismo che tira le fila di tutte le sigle con Toni Negri nella parte del Grande Vecchio era un fantasma dietrologico, e dunque un eccesso”. 

Negri, in virtù delle leggi speciali dell’epoca che consentivano di applicare il reato di associazione a delinquere alle organizzazioni politiche, viene accusato di essere il “mandante morale” del rapimento Moro, crimine nel quale sarebbe stato direttamente coinvolto. Il fondatore di Autonomia Operaia verrà, poi, condannato a 30 anni di carcere (che diventeranno 12 dopo l’Appello) per associazione sovversiva, banda armata e diversi altri reati, ma prosciolto con formula dubitativa dall’accusa di insurrezione armata. Amnesty International, in quegli anni, prende le difese di Negri perché vittima di una carcerazione preventiva troppo lunga.

Nel 1983 Marco Pannella propone al “cattivo maestro” padovano di candidarsi alla Camera col Partito Radicale. Negri, che in quel momento si trova ancora in carcere, accetta, ma una volta eletto e ottenuta l’immunità parlamentare, fugge in Francia dove viene protetto dalla ‘dottrina Mitterand’, innescando le ire di Pannella che si sentì tradito. “Credo che i voti che vennero alla mia modestissima persona erano voti che indicavano proprio il diritto all’evasione, il diritto alla libertà”, dirà Negri ‘autoassolvendosi’ per la sua scelta di riparare a Parigi. Dopo 14 anni rientra in Italia e nel 1999 ottiene la semilibertà e nel 2003 finisce di scontare la pena. Ma Parigi era al sia casa. E qui è morto poche ore fa. Novantenne e combattente dalla parte del torto.

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