Se la follia di Fedra si chiama amore
Soffre, Fedra. E nessuno sembra capire perché: la sua pena è impenetrabile. Come quel volto gigantesco e inespressivo (più un modello per frenologi, gli pseudoscienziati che misuravano i crani, che un simulacro) che campeggia nella nuda scena. Noi, però, lo sappiamo: ce lo ha detto Afrodite in persona, scendendo altera dalla platea (algida e sfolgorante, in oro e bianco ed eloquio tagliente, la statuaria Ilaria Genatiempo). Due dee aprono e chiudono – come fanno d’abitudine coi destini degli uomini – la seconda delle tragedie in scena al Teatro greco di Siracusa per la 59. stagione delle rappresentazioni classiche dell’Inda, «Fedra (Ippolito portatore di corona)» di Euripide, con la regia di Paul Curran.
Dopo le magniloquenze di «Aiace», e sempre sul tema della follia voluta dagli dei che acceca e perde, loro malgrado, gli uomini, tocca a un dramma quasi psicologico (con la cautela necessaria a usare questo termine, per il teatro antico e antichissimo), riportato interamente nelle parole di Euripide, che la traduzione di Nicola Crocetti restituisce in tutta la loro ariosa, letteraria eleganza e una formidabile compagnia di attori, molto ben diretta, anima. La forza della parola, d’altronde, è motrice, nella scena spoglia e grigia immaginata da Gary McCann, luogo in restauro o in costruzione (ma a noi del Sud viene piuttosto in mente l’eterno “non finito”, dove la costruzione sfuma, per sempre, in restauro), palazzo interiore dove si compiono in realtà due tragedie: di Fedra e di Ippolito, il figliastro di cui la regina è, a causa della manìa ispirata da Afrodite, follemente innamorata, e che è in effetti il personaggio del titolo originario di Euripide («Ippolito coronato»). D’altronde, Fedra – la vera protagonista – è potente eroina che non smette d’essere suscitata e raccontata, da Euripide e Seneca alle penne femminili moderne, da Marguerite Yourcenar a Nadia Fusini, perché la qualità del suo dissidio intimo chiama in causa le forze sempiterne della psiche e il mistero delle relazioni.
E c’è un “dentro” e un “fuori”, in cui Fedra e Ippolito si muovono senza (che beffa) di fatto incontrarsi. Lo spazio di reclusione della casa e del ruolo, per la donna nella società altamente misogina della Grecia antica, lo spazio della psiche che Fedra (Alessandra Salamida supera pienamente una prova difficile: modulare l’ossessione senza soccombere, mostrarci con forza l’andirivieni del suo cuore e della sua ragione tra colpa, esaltazione, vergogna) percorre e ripercorre alla ricerca d’un appiglio per contrastare l’incontrastabile tempesta amorosa, lo spazio serrato del mondo femminile: il coro, talora “a bocca chiusa”, di donne di Trezene (bravissime, corifee Simonetta Cartia, Giada Lorusso, Elena Polic Greco, Maria Grazia Solano; e poi Valentina Corrao, Aurora Miriam Scala, Maddalena Serratore, Giulia Valentini, Alba Sofia Vella, dirette da Francesca Della Monica), in vesti classiche d’ancella (i costumi di Gary McCann contaminano epoche e mondi, con una predilezione per certe macchie di colore, il giallo acido dell’abito di Fedra o gli abiti da lavoro segnaletici, fin troppo connotati, dei servi in divisa da Protezione civile, così come alquanto incongrui sembreranno a un certo punto un telefonino e la pistola di Teseo…), la nutrice (la perfetta Gaia Aprea conduce con nitidezza esemplare e piglio carismatico la sua discesa nella verità) che, col suo improvvido amore e la sua volontà di aiutare Fedra, ne causa in realtà la rovina. E uno dei momenti più alti è senz’altro il dialogo serrato tra Fedra e la nutrice, che segna il momento della rivelazione, ed è anche esaltazione, col controcanto tragico del dolore ossessivo di Fedra, d’un tema antico: l’onnipotenza di eros, «la cosa più dolce, e la più dolorosa insieme», forza rapinosa che «non si può arginare».
E via via che si trovano – che Fedra trova – le parole per dirlo, anche la scena (intima, esposta) si anima: sul volto impenetrabile che giganteggia al centro dell’impalcatura si proiettano immagini, luci, fattezze (videodesign Leandro Summo). La dea, la donna, l’amore, la morte, l’acqua e il fuoco: su quel volto di pietra si rivela ogni cosa. Così come la parola fa sulla scena, nell’inesorabile meccanismo tragico di Euripide (ben descritto dal “drammaturgo” Francesco Morosi).
Forse l’immagine più forte è quella d’un volto femminile intensissimo, occhi e labbra accesi, gigantesco, che tutto sovrasta. Immagine estremamente risonante – pur se non è certo nelle intenzioni del regista – nel mondo del MeToo e del femminile che rimonta la storia e può riscriverla.
Un’immagine che contrasta col (celeberrimo) monologo misogino fino all’acredine di Ippolito, abitante dell’ “altro” mondo, quello esterno e senza limiti dei maschi. Il giovane Riccardo Livermore anima con un surplus d’energia un Ippolito entusiasta e atletico, che Curran ci mostra in giacca glitterata pop alla testa d’una torma hippie, tra Hair e Woodstock (cosa invero bizzarra, per gli adoratori di Artemide che fanno della castità assoluta e del disprezzo per l’eros il loro programma esistenziale, tanto da suscitare, appunto, l’ira di Afrodite…). Le musiche di Matthew Barnes, con arrangiamento di Ernani Maletta, riecheggiano inizialmente l’ondata psichedelica degli anni Sessanta, per poi condensarsi in sonorità “altre”, dissonanze e distorsioni, via via che il dramma procede e ogni gioia si spegne.
Tutto “fuori”, Ippolito, dedito a sport virili e caste amicizie, senza riguardo per le voci di dentro e i richiami di eros. E quando il biglietto della suicida Fedra lo accuserà d’un crimine mai commesso, avrà inizio la sua tragedia. Perché il padre Teseo (Alessandro Albertin sostiene egregiamente, con forza e varietà di toni, la sua caparbia cecità e poi il dolore dello svelamento) lo condannerà senz’appello, salvo poi ricredersi, in una scena intensissima, sul letto di morte del ragazzo, colpito da Poseidone (carne insanguinata diventa colui che aveva negato il corpo e le sue gioie) e abbandonato anche dalla sua dea “amica”, l’adorata Artemide (cui Giovanna Di Rauso conferisce sprezzante sordità al sentimento umano). Una scena padre, potremmo dire.
Gli dei tradiscono, condannano, girano le spalle. Non abbiamo che i nostri sentimenti per essere migliori di loro.
Nel cast anche gli ottimi Sergio Mancinelli (il servo) e Marcello Gravina (il messaggero che racconta con vividezza l’incidente mortale di Ippolito), e i ragazzi dell’Accademia d’arte del Dramma antico, una solida certezza. Si continua fino al 28 giugno, in alternanza con “Aiace” e poi “Miles Gloriosus”.
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