Nato, ecco il patto per Kiev: F-16, Samp-T e Patriot per Zelensky. Potenziato il fronte Est

WASHINGTON Un percorso «irreversibile». L’Ucraina entrerà nella Nato. Nero su bianco, la grande promessa degli alleati atlantici riuniti a Washington campeggia in cima al comunicato finale. Sono passati due anni e mezzo dall’invasione premeditata del Paese vicino da parte di Vladimir Putin. Giustificata con una propaganda a tambur battente contro «la Nato che si allarga». Il risultato dell’“operazione speciale” russa è dare forma a quei timori. Si allarga davvero la Nato. Sul fianco Nord, inglobando il Mar Baltico, Finlandia e Svezia. E ad Est, con l’Ucraina destinata a diventare il 33esimo membro quando «saranno raggiunte le condizioni». Resta prudente il linguaggio del vertice della Nato all’ombra della Casa Bianca, tiene conto dei dubbi e della fatica che dilagano nel fronte occidentale pro-ucraino, a pochi mesi da un’elezione, le presidenziali americane di novembre, che potrebbe riportare Donald Trump nello Studio Ovale. Intanto però c’è Joe Biden a officiare.

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La scossa di Biden

Ieri sera il presidente americano ha ospitato tutti i leader transatlantici alla Casa Bianca per una cena ufficiale. Un tempo semplice protocollo, oggi questi appuntamenti hanno i riflettori del mondo addosso. Mentre si allarga a macchia d’olio, anche fra i democratici, la schiera di chi pensa che Biden non sia in grado, fisicamente e mentalmente, di tenere testa a Trump e debba fare un passo indietro. Il veterano dem non vuole saperne, anzi dà mostra di una certa verve. «Difenderemo ogni centimetro dell’Alleanza, Putin perderà», tuona Biden all’inizio del summit e tiene il punto in apertura del Consiglio Nord Atlantico, il conclave annuale a porte chiuse – ai leader sequestrano anche i cellulari – che riunisce i grandi d’Occidente. C’è Giorgia Meloni seduta al tavolo, in mano le carte di un discorso che ha limato e studiato nelle sue stanze all’Hotel St. Regis. Il succo è: l’Italia rispetterà i suoi impegni. Con la Nato, centrando il target del 2 per cento del Pil speso nella Difesa. Con l’Ucraina, tenendo fede alla promessa di dare aiuto «finché serve». Volti vecchi e nuovi al Washington Convention Center. Arriva Emmanuel Macron, che voci della vigilia raccontavano tentato dal forfait, scottato dal voto francese che lo ha messo all’angolo. Invece no, eccolo qui, Monsieur Le President, stringere mani e prendersi la scena. Tra i volti nuovi, il neo-premier inglese Keir Starmer al debutto internazionale. Almeno in politica estera, il “cambiamento” – change – che ha reso motto elettorale stenta a vedersi. Abbraccia Volodymyr Zelensky, il presidente ucraino è in città a chiedere agli alleati di non abbandonarlo ora, «Putin sta solo aspettando novembre». Starmer garantisce continuità, «il sostegno non verrà meno», e gli porta un regalo: autorizza l’esercito ucraino a usare i missili a lunga gittata Storm Shadows – fino a 300 chilometri il raggio d’azione – anche oltre i confini russi, sia pure «per scopo difensivo». Il Cremlino si infuria. Doveva essere un summit di “passaggio”, quello a Washington. Sospeso tra la corsa zoppa di Biden – oggi la conferenza stampa del presidente potrebbe dire molto sul futuro della sua campagna – e la spada di Damocle Trump. Invece produce effetti tangibili. Anzitutto: armi e risorse per allungare la vita alla resistenza ucraina. Stoltenberg, segretario uscente, annuncia 40 miliardi di aiuti divisi tra alleati. Ma sono le armi il piatto forte per Zelensky, impegnato in una trottola di vis-a-vis con i leader europei: Macron, Scholz, Meloni. Dalla capitale americana la delegazione ucraina torna con le tasche piene di garanzie. L’alleanza fra cinque Paesi – Usa, Italia, Olanda, Germania e Romania – per fornire a Kiev quattro batterie di missili Patriot e una batteria italiana Samp-T. I veri game-changer della guerra si chiamano però F-16, i formidabili jet da combattimento americani «sono in viaggio verso i cieli ucraini mentre parliamo», annuncia il Segretario di Stato Antony Blinken: verranno dall’Olanda e dalla Danimarca. «Ne servirebbero 128 per eguagliare la Russia» annota Zelensky dalla Reagan Foundation, alzando il tiro. Lo sguardo è al lungo periodo, al conclave dei grandi a Washington. Biden lo dice chiaramente in apertura del Consiglio Nato: «Aumenteremo il nostro sostegno all’Ucraina assicurando assistenza sulla lunga distanza». Tradotto: dovrà proseguire anche se Trump vincesse le elezioni a novembre.

Il piano B

È un piano B quello messo a punto dagli alleati. Che prevede di spostare in Germania, nel cuore dell’Europa, la centrale logistica per l’invio di armi al fronte ucraino, con un comando a guida americana a Wiesbalden forte di 700 militari. Sempre nel Paese di Scholz saranno posizionati missili da crociera a lungo raggio a cominciare dal 2026. Il programma svelato ieri al summit, “Multi Domain Task Force”, prevede il dispiegamento di Tomahawk, SM-6 e missili ipersonici in via di sviluppo. Un tassello alla volta, la deterrenza della Nato ad Est si rafforza. È sul fronte orientale che si concentrano armi e risorse degli alleati. Nonostante gli sforzi italiani per puntare i riflettori sul “fianco Sud”, ricordare che anche le turbolenze del Mediterraneo, i golpe in Africa che producono instabilità e migranti, sono una minaccia alla sicurezza. C’è spazio, nel comunicato finale, per un messaggio alla Cina di Xi Jinping, a conclusione di un vertice che si affaccia per la prima volta sul quadrante Indo-Pacifico. Una condanna del sostegno ormai aperto di Pechino alla macchina da guerra russa. Microchip, lenti ottiche, microcellulosa. L’aiutino cinese non sarà più tollerato.

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